Enrico Minguzzi

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Iper-irrealtà = le nature morte paesaggistiche di Enrico.
Le immagini non sono di questo mondo. Puoi assistere alla nascita di una nuova stella: Pianeta Minguzzi

Chimera
Ferro, schiuma di poliuretano, legno, colore acrilico, 2022

La Piena dell'occhio
Olio su resina epossidica su tela, 2022

"Ogni artista ha le sue piccole ossessioni, ed Enrico Minguzzi coltiva le sue con ostinazione e silenzio, principalmente attraverso l'uso di un mezzo antico e immortale: la pittura. Minguzzi è, infatti, un pittore puro, uno che scruta profondamente la storia delle immagini, che si dedica costantemente allo sviluppo formale e concettuale della pittura e che reinterpreta i modi in cui quest'arte si è manifestata nei secoli. C'è un desiderio particolare che, secondo me, anima ogni pittore-pittore, consapevole o meno, che è quello di trovare la propria strada tra le tante tracciate e scolpite nei secoli, cercando al contempo di espandere i confini e di apportare il proprio piccolo contributo. Questi sono per lo più avanzamenti infinitamente piccoli, e non sono nemmeno sicuro che possiamo davvero parlare di avanzamenti in senso stretto, ma piuttosto di spostamenti che possono comportare deviazioni, movimenti laterali o persino all'indietro. Devo ammettere che trovo quasi commovente assistere a questa continua ricerca e ai tentativi di percorrere queste brevi distanze in modo personale e originale.

Sento che i piccoli movimenti che Enrico Minguzzi sta facendo vanno nella direzione di un'unione tra diverse tradizioni pittoriche divergenti. Questo è ciò che si può rilevare nella serie di dipinti che l'artista sta esponendo nell'ex convento di San Francesco, tutti prodotti negli ultimi due anni. A prima vista sembrano nature morte, un genere particolarmente prominente nell'arte barocca italiana ed europea del XVI e XVII secolo. Apparentemente elementi naturali realistici sono posti al centro della composizione, spesso appoggiati su supporti che sembrano vasi o piatti, mentre gli sfondi sono sempre lasciati piuttosto indistinti e indefiniti. Questi dipinti sono pervasi da una dimensione quasi umanistica, e qui possiamo vedere una convivenza di generi artistici o tradizioni diverse: alla natura morta barocca si aggiunge un senso di centralità e grazia che sembra derivare dalla pittura della seconda metà del Quattrocento. Quando guardo i dipinti di Minguzzi, mi viene in mente l'immobilità calma e la staticità della pittura quattrocentesca (e non è certo un caso che tra i suoi dipinti preferiti ci siano le Città Ideali, altrimenti note come le Prospettive di Urbino). Le creazioni di Minguzzi mi ricordano immediatamente il dettaglio sorprendente e quasi metafisico dell'uovo che pende sospeso nella parte superiore della Madonna di Brera di Piero della Francesca. Non mi riferisco solo all'opera (Fior d'uovo) in cui Minguzzi rappresenta effettivamente un uovo, ma alla sua tendenza verso l'equilibrio compositivo, alla sua attenzione ai dettagli (come si vede ad esempio nell'importanza che dà alle ombre) e al fatto interessante che i suoi soggetti possono quasi sempre essere contenuti all'interno di una forma ovale.

Ma c'è anche una fonte di inquietudine in tutta questa apparente tranquillità, perché sotto la superficie dei dipinti di Minguzzi pulsa un'attrazione ostinata e tenace verso il Sublime, anche se forse non immediatamente percepibile. Questa tensione latente emerge soprattutto nei soggetti: dopotutto, riesci a riconoscere la specie precisa delle piante in queste opere? Potresti dare un nome particolare a quelle concrezioni minerali? E cos'è quel bagliore fosforescente con cui sembrano vibrare queste strane figure? Siamo abituati a pensare al Sublime in termini di paesaggio, ma in questo caso non c'è nessuna alta vetta che ci domina, né una natura selvaggia che ci avvolge. Nel lavoro di Minguzzi il Sublime appare nelle forme misteriose di quegli elementi vegetali e delle pietre che sembrano imitare "le rocce grezze, le caverne muschiose, le grotte irregolari non lavorate […] con tutte le grazie orribili della natura selvaggia stessa", che affascinavano Anthony Ashley Cooper, il 3º Conte di Shaftesbury, come descritto nel suo saggio del 1709 The Moralists: A Philosophical Rhapsody (citato da Umberto Eco). Tuttavia, per rispondere alle domande poste sopra, i soggetti di Minguzzi sono sempre il risultato di un'invenzione, una proiezione e un "discorso mentale". Possono sembrare fiori e concrezioni minerali, ma non corrispondono esattamente a nulla che esista realmente in natura. Credo che questo sia un altro aspetto del fascino di Minguzzi per la dimensione romantica, poiché il suo rapporto con la natura non è basato su un punto di vista calmo e oggettivo, ma piuttosto sull'osservazione di mutazioni drammatiche che stanno avvenendo (in un testo introduttivo di una mostra collettiva che includeva il lavoro di Minguzzi, l'artista Nicola Samorì scrisse di "distorsioni delle forme che avvengono nell'equilibrio tra contemplazione e lotta", e credo che questa definizione sia molto pertinente all'approccio dell'artista).

È forse per questo motivo che Minguzzi fa a meno di schizzi preparatori o riferimenti presi dal mondo reale (anche se una volta mi ha detto che "rinunciare alla fotografia come punto di partenza della mia pittura è stato come togliere le rotelle da una bicicletta per bambini"). Questo ha portato al paradosso evidente che, allontanandosi dalla rappresentazione diretta delle cose esistenti, le sue immagini sembrano straordinariamente credibili, tangibili e "vere". L'effetto complessivo è quello di un "iper-irrealismo" eccentrico, che dà consistenza fisica a soggetti fittizi. Questo aspetto particolarmente originale della pratica di Minguzzi è, in qualche modo, inquietante, tanto più in un contesto – l'area geografica intorno a Ravenna – in cui negli ultimi decenni si è sviluppata una scena artistica (soprattutto nel campo della fotografia) che è indissolubilmente legata all'osservazione ravvicinata dei paesaggi circostanti. Le opere di Minguzzi sicuramente non si conformano a questa tradizione, poiché mostrano un bisogno e un impulso romantico, un allontanamento dalla realtà circostante e una ricerca di coordinate diverse rispetto ai paesaggi piatti e placidi della Romagna.

Se dovessi trovare un punto di riferimento più pertinente, o genius loci, per l'arte di Minguzzi, potrei pensare alla Fiasca con fiori nella Galleria d'Arte Municipale di Forlì, una prodigiosa natura morta del XVII secolo in cui la copertura di paglia imbottita o guaina della caraffa di vino, che è diventata un vaso per fiori, è rappresentata con eccezionale precisione ed esattezza. Lo stesso tipo di attenzione ai dettagli è tipico delle opere di Minguzzi. Gli elementi che sostengono i suoi soggetti funzionano come piedistalli o basamenti (ad esempio in Voluta), che tendono a enfatizzare l'aspetto plastico e tridimensionale dei suoi dipinti. La loro struttura punta verso il piacere dell'invenzione che è così evidente in tutti i dipinti di Minguzzi: quei vasi e piatti potrebbero davvero esistere, ma l'artista non sembra riferirsi a nessun esempio specifico. In alcuni casi questi supporti sono quasi trasparenti, assumendo la forma di strani contenitori, come alambicchi e distillatori di alchimisti (come in Fiore freddo), ma in altri casi sembrano essersi dissolti e diventati parte integrante del soggetto, come rampicanti di edera che prendono possesso delle rovine su cui crescono e prosperano (come in Messidoro).

Un altro aspetto rilevante dei dipinti di Minguzzi è quello dei loro sfondi. Spesso privi di indicazioni spaziali marcate, sembrano palcoscenici teatrali vaporosi e atmosferici, come se contenessero in sintesi il tumulto drammatico tipico dei paesaggi romantici del XIX secolo. Potrei esagerare, ma mi piace considerare questi sfondi come una reinterpretazione di quelli che per secoli sono stati i contesti delle nature morte. Le sottili e tuttavia in qualche modo inevitabili ombre ai lati dei soggetti di Minguzzi mi ricordano il tipo di alone arioso che forma lo sfondo del famoso dipinto di Édouard Manet Le Fifre ("Il pifferaio") e che Michel Foucault descrisse così: "Non c'è nulla che possa servire da posto in cui posizionare i suoi piedi, tranne questa ombra molto leggera. È decisamente un'ombra, è decisamente niente, è decisamente il vuoto su cui poggia i piedi". In contrasto con questa caratteristica piuttosto sottile e poco appariscente, i bordi verde fluorescente che spesso corrono intorno alle cornici delle opere di Minguzzi appaiono ancora più evidenti. Questo non è solo uno strato di vernice aggiunto in un secondo momento, ma il fondo luminoso o la base dei dipinti, che a volte sembra trasparire per produrre una sorta di bagliore misterioso e un'aura quasi pulsante."

Saverio Verini